Articolo di startmagazine a cura di Marco Dell’Aguzzo
Lunedì il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha firmato una legge che vieta le importazioni dalla Russia di uranio arricchito, il principale combustibile utilizzato dalle centrali nucleari. Il divieto è pensato per ridurre le entrate economiche del Cremlino ed entrerà in vigore tra novanta giorni, ma il dipartimento dell’Energia potrebbe concedere delle esenzioni fino al 2028 in caso di criticità negli approvvigionamenti.
LA RUSSIA E IL MERCATO DELL’URANIO ARRICCHITO
Washington ha messo al bando il petrolio, il gas e il carbone russi poco dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina perché può fare affidamento su vaste riserve domestiche di combustibili fossili; ha temporeggiato sull’uranio, invece, perché Mosca è la sua maggiore fornitrice. La Russia è la prima venditrice di uranio arricchito al mondo e dalla Russia proviene il 24 per cento di quello utilizzato nelle centrali statunitensi: un giro d’affari che frutta al Cremlino circa 1 miliardo di dollari all’anno.
Fare a meno del combustibile russo, però, potrebbe provocare un aumento del 20 per cento dei prezzi internazionali, ha riportato Bloomberg, poiché un grande acquirente come l’America dovrà adesso rivolgersi ad altri venditori, restringendo il mercato anche per tutti gli altri.
Non è inoltre possibile escludere una ritorsione da parte di Mosca. Lo scorso dicembre – a Washington già si discuteva di un ban alle importazioni – la società russa TENEX, parte dell’ente statale Rosatom, aveva detto che il Cremlino avrebbe potuto vietare preventivamente le esportazioni di uranio arricchito negli Stati Uniti se il progetto di legge si fosse concretizzato.
GLI STATI UNITI SONO PRONTI?
Visto che la legge era in preparazione da mesi – la Camera dei rappresentanti ha approvato il Prohibiting Russian Uranium Imports Act a dicembre 2023 -, gli operatori delle centrali nucleari statunitensi hanno avuto del tempo per organizzarsi. Constellation, il più grande, ha fatto sapere di essersi assicurato forniture di combustibile sufficienti ad alimentare i propri impianti fino al 2029, con contratti che vanno anche oltre quella data. Gli operatori più piccoli, tuttavia, potrebbero non essere preparati al meglio, e anche Centrus Energy – un’azienda centrale negli sforzi della Casa Bianca per ridare vigore all’industria statunitense dell’uranio – aveva sottolineato la sua dipendenza da TENEX.
2,7 MILIARDI ALL’INDUSTRIA AMERICANA DELL’URANIO
La legge firmata lunedì da Biden contiene anche un fondo di 2,7 miliardi di dollari dedicato allo sviluppo della filiera domestica dell’uranio. Un tempo gli Stati Uniti dominavano il mercato dell’arricchimento di questo elemento, ma il settore entrò in crisi a seguito di un accordo del 1993 con la Russia per l’acquisto di materiale a basso prezzo.
Quell’accordo distrusse la profittabilità dei processi americani e oggi in tutto il territorio statunitense c’è un solo impianto commerciale di arricchimento dell’uranio: si trova nel New Mexico ed è gestito da Urenco, un consorzio britannico-tedesco-nederlandese.
Lo scorso ottobre Centrus Energy ha avviato la produzione in una struttura pilota nell’Ohio, stimando un output di novecento chili all’anno di HALEU, un tipo di uranio che viene arricchito a livelli più alti di quello convenzionale e che è necessario all’alimentazione di una nuova tipologia di reattori avanzati. Centrus ha detto di poter produrre anche uranio arricchito tradizionale.
Il dipartimento dell’Energia vuole utilizzare il fondo da 2,7 miliardi per creare un acquirente garantito di combustibile nucleare made in USA, cioè un soggetto in grado di assicurare la certezza di un mercato a tutte quelle aziende che hanno investito nei processi di arricchimento in America o che potrebbero farlo.
Il recupero della capacità perduta nel mercato dell’uranio passa anche per la collaborazione con gli alleati: a dicembre, infatti, gli Stati Uniti, il Canada, la Francia, il Giappone e il Regno Unito si sono impegnati a investire collettivamente 4,2 miliardi di dollari nell’arricchimento dell’uranio.
Articolo di startmagazine a cura di Marco Dell’Aguzzo